Popolazione, crescita, dinamiche

Parlare di “popolazione” in termini assoluti ha poco senso. Prendo spunto da questo tweet per una breve panoramica su ciò che in ecologia si chiama “dinamica di popolazione”

Utilizzerò come esempio la popolazione umana.

Uno degli strumenti utili per comprendere la dinamica di una popolazione animale è la sua “piramide”. Un grafico a doppi istogrammi orizzontali in cui ciascun dato indica il numero di individui che appartengono a una determinata classe di età e a uno dei due sessi.

Ad esempio, questa è la piramide di popolazione della nostra specie a livello mondiale. La forma è effettivamente a piramide, ma la “base” non è molto più grande dei piani medi, i nuovi nati sono più dei 30enni, ma non di molto. La popolazione cresce, ma non come in passato.

Una popolazione in piena crescita, diversamente, ha tanti giovani e via via meno individui nelle età alte. Più la piramide è “appuntita” più la crescita è spinta.
Qui sotto la piramide di popolazione del continente Africa, con un tasso di crescita pressoché stabile. Una popolazione con questa piramide è una popolazione destinata ad aumentare nel tempo.

La popolazione europea è ancora diversa: mostra una tendenza in decrescita, come evidente dai valori delle fasce intermedie che risultano superiori a quelli delle fasce giovani. In questo caso la “rinnovazione” non è sufficiente a rimpiazzare chi morirà nel medio-lungo periodo. La popolazione non potrà che diminuire.

Per ultimo vediamo Il caso dell’Italia, che è è ancora più estremo. La base della piramide (se tale possiamo definirla) è molto più “stretta”, la decrescita della popolazione è evidente. Con tutte le complesse conseguenze sociali che la nostra specie si porta dietro (chi manterrà i molti anziani se i giovani in età da lavoro saranno inevitabilmente pochi?).

In sostanza il numero “assoluto”, o consistenza di una popolazione è solo un parametro. Esistono alti valori, le sotto-popolazioni, i trend. Non è immaginabile valutare qualcosa di complesso con un solo numero.

In fin dei conti è solo ecologia.

Sinestesie

Screenshot di una registrazione sull’app BirdNET

La sinestesia (dal gr. sýn «con, assieme» e aisthánomai «percepisco, comprendo»; quindi «percepisco assieme») è un procedimento retorico, per lo più con effetto metaforico, che consiste nell’associare in un’unica immagine due parole o due segmenti discorsivi riferiti a sfere sensoriali diverse (Treccani on-line)

È possibile vedere qualcosa che non vedi, ad esempio un suono?

Beh, si. Esistono dei software (piuttosto comuni, nulla di spaziale) che possono “disegnare” un suono.

Si chiamano spettrogrammi e consistono in un grafico cartesiano in cui l’asse orizzontale individua il tempo e quello verticale la frequenza di un suono (frequenza maggiore significa suono più acuto e viceversa). Il grafico può individuare un suono di una determinata frequenza emesso in un dato istante incrociando queste due informazioni; l’intensità del colore del pixel individuato determina invece l’intensità (cioè il “volume”) di quel suono in quell’istante.

Il risultato è visibile nell’immagine sopra: una serie di pennellate che individuano il variare del canto di una capinera fuori da casa mia (puntuale, tutti i giorni da un po’ di tempo a questa parte).

Per fare questo ho utilizzato un’applicazione gratuita che si chiama BirdNET, progetto sviluppato alla Cornell Università, specifica per il riconoscimento degli uccelli. È sufficiente aprirla, fare partire la registrazione, selezionare il canto registrato e il software lo confronterà con un database di canti di uccelli di tutto il mondo fornendo la risposta. Consiglio a tutti di scaricarla, è divertente (no, non sono pagato per fare pubblicità, mi piace davvero).

Esistono poi innumerevoli software che riescono a creare gli spettrogrammi di un suono registrato, è interessante “vedere la forma di un suono”, o anche capire che ci sono suono “senza forma”.

Non è però l’unico collegamento suono-immagine che mi venga in mente.

Associare un suono a un’immagine è qualcosa che avviene praticamente sempre nella testa di uno zoologo (non solo di un ornitologo) perché il suono è una delle manifestazioni più comuni nel mondo animale. Magari non si arriva a “dipingere” l’andamento di un suono, ma l’immagine mentale di un cervo si materializza istantaneamente sentendo un bramito in autunno, nei boschi.

È così che ho imparato a guardare gli spettrogrammi: con i bramito dei cervi. Nella foresta del Cansiglio (Prealpi Venete) e poi in Sardegna (Medio Campidano) e nel Boscone della Mesola (delta del Po). Serate di ascolti, microfoni e registratori impostati e sistemati, tentativi di analisi, successi e insuccessi. Una tesi di laurea magistrale (mia), alcune altre da correlatore, ma più che altro vino, cene, notti senza senso.

Immagini meno zoologiche, queste ultime, ma non meno potenti. Un bicchiere di vino e una sensazione di stanchezza da mancanza di sonno che si materializzano nell’istante in cui si sente un cervo maschio che si butta nella mischia per la stagione riproduttiva.

Forse è per questo, anche per questo, che mi piace ascoltare i suoni di un bosco, o anche semplicemente di un giardino. Magari semplicemente ho iniziato a farci caso con più attenzione.

Questo non l’abbiamo visto, ma l’abbiamo sentito.

Già. Si può vedere anche con le orecchie a quanto pare.

Un paio d’ore

“Ciao Fabio… Faresti due ore di lezione per questo corso?”

Di solito comincia così, con una frase del genere detta la telefono.

“Certo, si può fare. Organizzo un attimo gli argomenti da esporre e qualcosa tiriamo fuori”, questa di solito è la mia risposta.

Eccomi qui di nuovo, dunque. Due ore di lezione. Di cosa parliamo? Due ore sull’avifauna.

L’avifauna. Uccelli.

Ci sono più uccelli che mammiferi su questo pianeta, lo sapevate?

E in due ore dovrei parlare di avifauna. E che cavolo dico?

Di solito mi faccio una scaletta: prima scelgo i macroargomenti da trattare, poi vado nello specifico e comincio a costruire la presentazione recuperando i materiali, costruendo le slides. Ma qui come faccio? L’argomento è vastissimo, i corsisti dovrebbero diventare guide naturalistiche e non hanno al momento una formazione specifica, “Considerali dei fogli bianchi su cui disegnare“.

Precediamo allora. Recupero il mio manuale di ornitologia generale, un paio di guide, qualcosa sugli esotici, magari riesco a circoscrivere. E invece no.

Sfoglio il primo capitolo del manuale (filogenetica della classe degli uccelli), è ben evidenziato il fatto che gli uccelli sono dinosauri (non gli assomigliano, lo sono proprio, almeno dal punto di vista sistematico. Ornitischi come il T. rex e il Velociraptor). Già questo è fighissimo, c’è tutta la questione delle penne e delle piume e della loro funzione, dovrei aver letto qualcosa, fammi prendere quell’altro libro…

Ok, l’altro libro (The evolution of beauty di Richard Prum, NDR) ha due o tre capitoli che possono tornare utili. Leggo.

Passano un paio d’ore.

Il computer è in stand-by. Meglio iniziare a scrivere qualcosa. Cominciamo a costruire le slide, parliamo della sistematica, delle caratteristiche comuni a tutti gli uccelli, il ché mi porta a parlare degli straordanari adattamenti evolutivi.

Ok. A quante slides siamo? 20. Ok, forse sto divagando.

E se facessi un po’ di riconoscimento? Ma riconoscimento di cosa? Solo per parlare delle differenze tra codirosso (Phoenicurus phoenicurus) e codirosso spazzacamino (Phoenicurus ochruros) potrei spendere un quarto d’ora.

No, dai. Parliamo di adattamenti agli ambienti. Partiamo dalla costa, poi le acqua dolci, i boschi di pianura, i boschi collinari…

No troppa roba.

Ci sono troppi argomenti interessanti, troppe cose belle da dire, troppe cose che mi prenderebbero ore di lettura per tirare fuori due slides. Impossibile.

Ultima possibilità: trasformiamo il punto di debolezza in un punto di forza. Non potrò mai trattare tutto in due ore. Né in quattro, né in venti.

Prendiamo i principali gruppi sistematici, recuperiamo delle belle foto di alcune specie rappresentative e parliamo.

A ruota libera, osserviamo le caratteristiche sentiamo le esperienze dei corsisti e il loro punto di vista. Si racconta ciò che viene fuori.

Io sarò lì, armato dei miei appunti e dei miei libri. Darò input, risponderò a domande, farò notare particolari, racconterò esperienze e le ascolterò.

D’altra parte le poche volte in cui riesco a insegnare qualcosa sono quelle in cui racconto ciò che mi piace, ciò che mi appassiona.

Quindi, se dovesse capitarvi una guida naturalistica che non sa con precisione l’apertura alare del picchio verde, non prendetevela con il malcapitato: magari ha solo avuto me come docente.

Piuttosto chiedetegli: “cos’ha di straordinario il picchio verde?”

Più a nord, più in alto

Avvertenza: questo post parte dal suggerimento di Giulio Betti, al quale ho promesso un articolo più approfondito (e in italiano almeno accettabile) rispetto a un’immagine pubblicata su Twitter, questa:

L’immagine riporta una cartina d’Europa un po’ differente da quella che siamo abituati a vedere: L’Italia è decisamente tozza, l’adriatico si è rimpicciolito, Sardegna e Corsica sono comunicanti e la Sicilia si è mangiata un pezzo di Mediterraneo.

Non è l’unica stranezza: quello che salta all’occhio immediatamente sono le due grandi macchie bianche che coprono la quasi totalità dell’Europa settentrionale (la Scandinavia non si vede, così come le isole britanniche) la zona delle Alpi e – in maniera meno accentuata – i Pirenei.

Stranezza sopra stranezza si vedono valori termici molto strani. Molto bassi, prossimi allo zero o inferiori quasi ovunque. Che immagine è?

Lo spiega Giulio: sono le ipotetiche temperature che un bravo meteorologo avrebbe osservato il 23 settembre de 18891 a.c. alle ore 22,45.

Perché così freddo? Beh, perché siamo alla fine dell’ultima glaciazione che ha colpito il nostro pianeta da circa 100’000 a circa 12-10’000 anni fa.

Giusto per capire la situazione, il Pleistocene volgeva al termine (6-7 mila anni rimanenti), Homo sapiens era già rimasto l’unica specie umana al mondo, Homo neanderthalensis si era già estinto da oltre 10 mila anni dopo aver condiviso con noi parte del territorio europeo (e parte di DNA, a quanto pare).

Possiamo rendere una vaga idea della situazione dicendo che se oggi i nostri problemi faunistici si focalizzano sui cinghiali, in quei giorni di settembre poteva capitare di imbattersi in un rinoceronte lanoso (Coelodonta antiquitatis) o in un mammut (Mammuthus primigenius). Altre bestie, altri problemi.

Gli ecosistemi europei, quindi, erano piuttosto diversi da quelli odierni. Non solo per quanto riguarda la limitata – seppur non assente – antropizzazione (non era ancora stata inventata l’agricoltura ma la nostra specie cominciava a farsi sentire), quanto per via di quelle temperature, particolarmente basse. Un freddo porco.

Le condizioni climatiche sono uno degli elementi principali che concorrono a definire gli ecosistemi (fanno parte della cosiddetta componente abiotica), quindi l’Europa che si avviava alla fine dell’ultima glaciazione era popolata da piante e animali costretti al freddo, a lunghi mesi di copertura nevosa e alle risorse che si potevano reperire di conseguenza. Il gioco dell’evoluzione era ovviamente già in corso da miliardi di anni, dunque quelle piante e quegli animali erano perfettamente adattati a vivere in condizioni glaciali. Le lepri, ad esempio, erano selezionate per cambiare il colore del pelo nei lunghi mesi di copertura nevosa per sfuggire meglio alla vista dei predatori: un bianco candido in inverno, marroncino a macchie nei mesi estivi, quando la vegetazione tornava protagonista.

Queste condizioni (e il pelo delle lepri) potevano definirsi costanti dai Pirenei e dall’Appennino centrale su su, fino al Mar Baltico (che non era un mare, era un’enorme pista da pattinaggio sul ghiaccio).

A un certo accade qualcosa. O almeno comincia ad accadere qualcosa: le cose cambiano.

Lentamente, gradualmente, la temperatura media del nostro pianeta comincia a salire seguendo una di quelle fluttuazioni già avvenute almeno altre 5 volte nei milioni di anni precedenti. Le temperature aumentano, i ghiacci si sciolgono e l’acqua si riversa nei mari che salgono di livello separando Corsica e Sardegna, Sicilia e Pantelleria. I fiumi a sud delle alpi si accorciano perché l’avanzata dell’Adriatico sposta sempre più a monte le foci. L’Adriatico si fermerà formando delle lagune a Venezia e a Grado.

I ghiacci si ritirano, quindi. Più a nord, ma anche più in alto nelle catene montuose. Si ritirano dove le temperature restano sufficientemente basse e con loro si “ritirano” le specie vegetali che si erano adattate alle condizioni glaciali. A ruota, ovviamente, seguono le specie animali, inclusa la nostra lepre bianca.

Si scalda la terra, i ghiacci continuano a ritirarsi. Più a nord, più in alto.

A un certo punto il “nord” e l'”alto” si separano. Si apre una frattura ecologica a nord delle Alpi, una fascia di pianura o colline in cui non ci sono più i ghiacci perenni che si trovano a nord, dove fa freddo, o salendo di quota nelle catene montuose più a sud (Alpi appunto, ma anche Pirenei).

Questa frattura si allarga sempre più finché non diventa impossibile per una lepre bianca spostarsi dalle alpi ai ghiacci delle pianure settentrionali. Isolamento.

Quando le temperature si stabiliranno attorno ai valori odierni, circa 10’000 anni fa, le popolazioni di alcune specie si troveranno “spezzate” in areali diversi.

La nostra lepre si evolve in due popolazioni distinte, separate. Ne è passato di tempo, ma non abbastanza perché i due gruppi possano essere considerate specie diverse. Una sola specie, dunque (che a questo punto possiamo chiamare con nome e cognome: Lepre variabile, o lepre bianca. Lepus timidus), una specie con un areale di distribuzione discontinuo che comprende l’area boreale e l’area alpina.

Una specie a distribuzione boreo-alpina, o anche artico-alpina.

areale di distribuzione di Lepus timidus, da Wikipedia

Questo destino è condiviso da diverse specie animali e vegetali che oggi mostrano una distribuzione simile, come ad esempio la saussurea delle alpi (Saussurea alpina), una piccola pianta erbacea, oppure la libellula Somatochlora alpestris.

Dunque il meteo di una sera di settembre di svariati mila-anni fa può fornirci una fotografia ecologica. Un punto di partenza per interpretare il presente. E scrivere tweet stimolanti.

Ritorni, attese, resistenze

La strada si sviluppa diritta, bianca, contornata da alberi e arbusti. In fin dei conti era una ferrovia costruita per portare i soldati al fronte durante la grande guerra, poi dismessa.

È rimasta la massicciata, conquistata lentamente ma inesorabilmente dal “bosco lineare”, una siepe rialzata, selvaggia, che attraversa l’ordinata campagna circostante.

Oggi in quella massicciata corre una strada ciclopedonale sterrata. Lunga. Diritta. Quando gli alberi si diradano è possibile vedere la lunga gobba del Montello e – più a nord – i massicci del Grappa, del Nevegal, del Cansiglio. Non sempre, però; buona parte del sentiero si sviluppa tra due ali di alberi.

Tra l’ormai onnipresente robinia, con la sua chioma leggera e i polloni che spuntano ovunque il sole arrivi a toccare terra, e tra i prepotenti ailanti che colonizzato metri e metri, si trovano ancora alberi “antichi”, che facevano parte delle campagne di pianura anche nei decenni passati. Ciliegi, maestosi e dal fusto scuro, frassini, castagni. E poi ci sono loro. I miei preferiti: gli aceri campestri

L’acero campestre è una pianta per caratteri placidi. Non raggiunge altezze o diametri notevoli, non colonizza a perdita d’occhio tutto lo spazio libero, le sue samare volano in cerca di una fortuna che non sempre trovano. Eppure gli aceri campestri sono lì. Fanno capolino con le loro foglie dalla forma inconfondibile. Piccole rispetto a quelle degli aceri di monte, dai bordi gentilmente arrotondati, non con le punte degli aceri ricci. Alberi tranquilli. Comprimari. Non prepotenti.

Eppure hanno su di me un fascino irresistibile. Li cerco con lo sguardo mentre cammino, respirando l’umidità lasciata dall’acquazzone della notte mentre la mia mente è ancora intrisa dei boschi di lecci e sughere, del caldo polveroso della macchia mediterranea dove ho passato un bel pezzo d’estate.

Gli aceri sono lì. Come ad aspettare, come a dire “lascia pure che robinie e ailanti si facciano guerra per un metro in più. Noi siamo qui. Resistiamo.”

“Abbiamo visto passare tanta gente. Abbiamo visto passare te, saremo qua anche quando non passerai più. Ma ti aspetteremo comunque”.

Grazie alla ricerca

Articolo tratto da un mio thread su Twitter.

Un anno fa di questi tempi eravamo appena entrati in contatto con un virus di cui sapevamo poco o nulla.

A un anno di distanza ho dato il mio consenso per essere vaccinato contro quel virus.

Questa è l’importanza della ricerca scientifica: fa miracoli.

Lo sviluppo di vaccini in poco tempo (ricerca applicata) è stato possibile unicamente perché prima di questi vaccini migliaia e migliaia di scienziati hanno fatto ricerca, hanno sviluppato esperimenti, hanno pubblicato risultati.

In fin dei conti era il 1953 l’anno in cui Watson e Crick hanno pubblicato la loro scoperta sulla struttura del DNA, da allora le ricerche in genetica si sono sviluppate al punto di consentire la produzione di vaccini a mRNA.

Per arrivare a questo i ricercatori di Pfizer, Moderna, AZ ecc. non sono partiti da zero; si sono basati su una montagna di conoscenza pregressa che è servita a compiere – velocissimamente – questo ultimo miglio. Conoscenze di genetica, fisiologia, biologia…

Conoscenze derivate dalla ricerca pura, dal lavoro di scienziati che instancabilmente hanno studiato cose apparentemente assurde (come si sviluppano i virus sui pipistrelli? Come si comportano le proteine nella membrana cellulare? Cos’è un virus?).

Ricerche che con tutta probabilità hanno faticato a trovare i fondi, che hanno incontrato lo scetticismo della politica (perché dovrei dare soldi a uno che cerca cacca di pipistrello in indonesia?) ma che ci hanno portato a questo: la conoscenza.

Quindi, quando vi chiederete perché si spendono soldi in ricerche che ritenete assurde, ricordate la frase di Faraday in risposta al ministro delle finanze Gladstone che gli chiedeva a cosa servissero i suoi esperimenti: “Non lo so, ma un giorno ci metterete una tassa sopra”.

O per attualizzare: a cosa serve la ricerca scientifica? Non lo so, ma un giorno potrebbe salvarci da una pandemia.

Buon Compleanno, Charles!

12 febbraio 1809, nasceva Charles Darwin, lo scienziato che sta alla biologia come Niccolò Copernico sta all’astronomia.

Un uomo curioso, predestinato dal padre alla carriera di medico, laureato in teologia, fine e appassionato osservatore (prima) e studioso (poi) della natura.

Gira letteralmente attorno al mondo a bordo del brigantino Beagle, imbarcato come naturalista, osserva l’incredibile varietà delle forme viventi e intuisce che le caratterisriche di ogni specie, incredibilente funzionali alle risorse dell’ambiente, possono essere il frutto di una selezione naturale.

Il ragionamento è questo: ogni individuo deve competere con i propri simili per poter avere accesso alle limitate risorse che l’ambiente mette a disposizione; analogamente deve competere con predatori e prede. Gli individui della stessa specie, per quanto simili, presentano delle differenze – anche lievi – che possono essere decisive per l’accesso al cibo o alla riproduzione.

Gli individui con le caratteristiche migliori avranno maggior probabilità di sopravvivere e riprodursi, trasmettendo ai propri figli le caratteristiche vincenti grazie all’ereditarietà dei caratteri (ciò che oggi chiamiamo genetica).

Tutto qui. Niente di strano in fin dei conti: l’uomo aveva selezionato per secoli le varietà di animali domestici facendo accoppiare le vacche che producevano più latte, le pecore che facevano più lana o le colombe con la coda più graziosa. Perché lo stesso meccanismo non dovrebbe verificarsi in natura?

La natura diventa “selezionatrice inconsapevole”, le specie cambiano nel tempo e – se opportunamente isolate – possono divergere dai gruppi di origine e formare nuove specie. Nulla è fermo, nulla è “come è sempre stato”.

I risultati di questa teoria sono stati pubblicati in uno dei testi più celebri del pensiero umano: “L’Origine delle Specie“, il libro che è alla base di ogni conoscenza biologica moderna.

Alcune copie de “L’origine delle specie” che trovano posto nella mia libreria

Un libro che ha sconvolto la società alla fine del XIX e che è stato usato e male interpretato all’inizio del XX per giustificare idee di razzismo e superiorità di singoli gruppi, sino a portare all’eugenetica.

Tuttavia quel libro è – e rimane – la chiave con cui abbiamo davvero iniziato a capire il mondo vivente e a comprendere molti dei fenomeni che oggi diamo per scontati: dalle dinamiche ecologiche alle mutazioni dei virus (di cui in questi giorni abbiamo capito l’importanza).

Nulla in ecologia ha senso se non alla luce dell’evoluzione” scriveva il genetista Teodosij Dobzhansky. E aveva ragione.

Per dare un senso a molte cose basta un’intuizione semplice. Purtroppo serve una mente geniale per avere quella intuizione. Per fortuna quella mente c’è stata.

Grazie, Charles. E buon compleanno!

La compagnia della Gazza

Gazza (Pica pica), da Wikipedia.de

Maledette bestiacce!

Così le chiamava il mio anziano vicino di casa. Bestiacce.

Non so perché la gazza (Pica pica) sia generalmente antipatica. Sarà per quell’aggettivo che ai porta dietro, “ladra”, sarà per la sua intelligenza che rasenta la furbizia, sarà perché la vedi spesso se c’è qualche animale morto. A banchettare.

Brutte bestie. ‘ndè via!

No, non stavano simpatiche al mio vicino.

A me sì. Non posso non pensarci in qiesti giorni in cui uno dei pochi svaghi concessi è quello di camminare in campagna, nei pressi di casa. Cammino tra i campi gonfi d’acqua, in cima agli alberi spogli si appollaia una coppia. Gracchiano tra loro, poi una parte a scacciare chissà quale invasore e torna.

Effettivamente devo dire che la scena, guardata superficialmente, ha qualcosa di lugubre. Il cielo è grigio, pesante, il freddo è penetrante, i rami spogli di olmi e pioppi su cui si posano queste sagome scure sembrano dita ossute. Già, non è una scena che mette allegria.

Eppure quando un’altra gazza mi passa a pochi metri non posso non vedere la bellezza di quel piumaggio nero accostato al bianco candido, ai riflessi metallici lucenti, alla coda lunga ed elegante.

La compagnia di questi animali è piacevole in queste passeggiate solitarie. La loro territorialità marcata dona certezze: quando tornerò vicino a questi campi troverò sempre quelle due gazze, impegnate a scacciare gli intrusi, approfittare di qualche invertebrato offerto dai campi allagati o di qualcosa lasciato da noi umani, scelti da questi uccelli come vicini di casa ideali.

Anche domani saranno lì.

E dopodomani.

A far vedere che c’è qualcosa di molto vivo nella campagna morta.

2020, 2021…

Un altro giro compiuto dal nostro pianeta attorno al Sole (un po’ di più, è stato un anno bisestile e abbiamo dovuto recuperare il terreno perso).

È stato senza dubbio un anno particolare, una pandemia ha modificato drasticamente il nostro modo di vivere, un virus di cui non sapevamo nulla 366 giorni fa è comparso, si è diffuso, ha portato via molte persone e cambiato la vita di interi Paesi.

C’è da dire anche che, nel breve tempo in cui il nostro pianeta ha compiuto la sua ennesima rivoluzione, la nostra specie (scapestrata, pasticciona, a tratti pericolosa) è riuscita a sviluppare dei vaccini in grado di controllare il diffondersi di questo virus. Non era scontato, non lo era per niente.

Ecco quindi due “spunti” con cui vorrei salutare questo 2020 e dare il benvenuto al 2021:

1. La consapevolezza che siamo animali. Una specie tra le tante, che vive una parentesi della storia della vita sulla Terra, con le sue debolezze e fragilità. Basta un niente, un filamento di RNA racchiuso in una capsula di lipidi e proteine che non siamo nemmeno sicuri essere un “vivente”, e rischiamo di perdere tutte quelle certezze che ci fanno sentire invincibili, al di sopra della natura e delle sue leggi.

2. La fiducia nelle nostre capacità, nello sviluppo della scienza che con il suo Metodo, fatto di tanti piccoli mattoncini che costruiscono un sapere enorme, può aiutarci a uscire anche dal più grosso dei guai.

Molte altre cose si potrebbero dire su questo 2020 che si conclude, ma io vorrei fermarmi qui. Consapevolezza e Fiducia. Gli ingredienti di base per poter affrontare il futuro e le sue sfide, dai virus al cambiamento climatico.

Consapevolezza e Fiducia.

Guardiamo avanti.

Buona fine e buon inizio.

Partono i Samurai contro la cimice asiatica

Esemplare di vespa samurai (Trissolcus japonicus) su uova di cimice (foto da wikipedia.it)

Ci siamo.

Dopo anni di raccolti danneggiati senza poter fare nulla, senza poter ricorrere alle assicurazioni, senza dei rimedi effettivamente efficaci, arriva una soluzione (o almeno si spera che sia una soluzione).

Contro la cimice asiatica (Halyomorpha halys) sono pronti a scendere in campo i suoi nemici naturali: le vespe samurai (Trissolcus japonicus).

(Perché la cimice asiatica è un problema così grande? Ne avevo parlato ormai molto tempo fa qui e qui. Mi ero anche permesso di fare una digressione “filosofica” qui.)

Bene quindi. Abbiamo un nemico naturale, un parassitoide che depone le uova all’interno delle uova di cimice impedendone lo sviluppo e quindi – si spera – riducendo il numero di cimici libere di scorrazzare per i frutteti e per i campi di soia.

Funzionerà? È quello che si spera. Sia la cimice che la vespa sono due specie aliene, entrambe originarie dell’Asia orientale, area in cui la cimice non fa troppi danni proprio perché è tenuta sotto controllo dalla vespa samurai in un equilibrio ecologico instauratosi da molto tempo.

La cimice asiatica, come sappiamo, è presente da pochi anni in Europa, importata accidentalmente. A quanto pare si è trovata bene: il clima è buono, il cibo è ottimo e abbondante, predatori rompiscatole non ce ne sono. Le condizioni ideali per proliferare, moltiplicarsi e fare molti danni all’agricoltura.

Danni causati dalla puntura di cimice asiatica su pere

Ora abbiamo un alleato, quindi. Così si spera. Si spera che la vespa samurai possa fare ciò che fa in Asia, cioè riprodursi a danno della cimice asiatica riducendone il numero. Anche la vespa samurai, però, è una specie aliena.

E quindi?

Quindi non sappiamo con certezza cosa succederà. Non sappiamo se questa piccola vespa, anche lei nuova nell’ambiente, non preferirà riprodursi ai danni di altri insetti, che non ha mai conosciuto (ma perché dovrebbe se ci sono le sue amate cimici?). Non sappiamo se qualche insetto o altro animale “nostrano” deciderà che la vespa samurai è proprio buona da mangiare, quindi il nostro alleato potrà avere vita dura.

Vale la pena tentare? Visti i danni all’agricoltura la mia risposta, di pancia, è sì. Proviamoci.

Quali saranno gli effetti a lungo termine, purtroppo, non lo possiamo sapere, perché siamo consapevoli che l’ecologia è un sistema di equilibri delicatissimi tenuti insieme da innumerevoli fattori, tutti intrecciati tra loro a formare un castello di carte.

Aggiungiamo una carta. Deliberatamente. Sperando che renda il castello più solido senza farne crollare neanche una parte.