Crescite e inevitabili conseguenze

Piccolo ragionamento sulle popolazioni animali.

Immaginiamo una specie animale. Il nome della specie non è importante in questo momento, la chiameremo X. Ci basta sapere che è una specie onnivora e che dal punto di vista ecologico può essere inserita tra le specie ecosystem engineers, ossia è una di quelle specie in grado di modificare l’ambiente per trarne un vantaggio (come i castori che costruiscono dighe, tanto per farsi un’idea del concetto).

La specie X vive su quella che è di fatto un’isola, ossia un ambiente limitato dal quale non può spostarsi per colonizzare eventualmente altre aree idonee alla sua vita; dunque la popolazione generale di questa specie non subisce immigrazione o emigrazione, le fluttuazioni sono legate unicamente a natalità e mortalità (questo facilita la comprensione delle dinamiche perché elimina due variabili non proprio secondarie).

La specie X ha un ottimo successo, è cresciuta e continua a crescere in modo molto spinto ma potrebbe essere prossima al raggiungimento – o avere da poco raggiunto – il “punto di flesso”, ossia il punto in cui l’aumento degli individui inizia a rallentare pur rimanendo in una fase di crescita (per gli amanti dei grafici direi “seguendo una funzione logistica”).

(del concetto di crescita di una popolazione avevo parlato anche in un vecchio articolo sui lupi, per chi volesse recuperarlo)

Dal punto di vista della distribuzione X si trova concentrata in alcune aree del suo ambiente ma dal punto di vista genetico non ci sono barriere tali da impedire il contatto tra sottogruppi, risulta di fatto impossibile identificare geneticamente delle sotto-popolazioni. I vari sottogruppi sono interconnessi in modo molto efficace e continuo.

Per quanto riguarda lo stato attuale si evidenzia un problema: X sta raggiungendo una consistenza (cioè un numero di individui) tale da compromettere le capacità del sistema di rigenerarsi: in sostanza la specie sta “consumando” più di quanto il suo ambiente riesca a produrre. Questa situazione accade spesso quando una popolazione, ad esempio di erbivori, raggiunge numeri troppo alti perché le specie vegetali di cui si nutre possano “produrre” a sufficienza per sfamare tutti gli individui; in quel caso il consumo inizia a minare anche le riserve, oltre alla rinnovazione (si parla di non-sostenibilità).

Un ulteriore problema è che le caratteristiche da ecosystem engineer della specie stanno portando a modificazioni ambientali in una parte non trascurabile dell’isola. Tali modificazioni hanno effetti sulle altre specie e indirettamente sugli equilibri ecosistemici generali. Tali disequilibri rendono in alcuni casi difficile l’adattamento di X, che manifesta una certa inerzia nel cambiare le proprie strategie adattative.

Qualunque ragionamento sul futuro della popolazione X non può che portare alla stessa conclusione: la specie è destinata al declino numerico legato alla carenza di risorse (leggi: non ci sarà da mangiare per tutti) o allo sviluppo di patologie poiché gli individui sono fortemente interconnessi.

Come per tutte le popolazioni gli individui destinati a sopravvivere alla inevitabile fase di declino saranno quelli in grado di avere un migliore accesso alle risorse (cioè a “mangiare di più”) e a resistere maggiormente a eventuali epidemie.

Facile, no? Praticamente un caso-scuola per prevedere il futuro di una popolazione animale.

Ecco, ora provate a rileggere quanto scritto sopra tenendo in mente la seguente informazione:

La specie X si chiama Homo sapiens.

Tutto il resto rimane uguale.

P.S. altre considerazioni sulla dinamica di popolazione della nostra specie le potete trovare in questo articolo di qualche tempo fa.

Vita aliena

Ogni tanto penso agli extraterrestri, lo confesso.

Capita di pensarci, più spesso di quanto non pensi all’impero romano e meno spesso di quanto non pensi a uno spuntino, tanto per dare l’idea.

Non mi riferisco agli UFO, ai rapimenti o a mucche che vengono sollevate da terra per finire in un disco volante. Non penso agli extraterrestri come uno un po’ suonato, ci penso come zoologo.

Penso a come potrebbero essere degli “animali” di altri mondi.

(lo so, questo non esclude affatto che io sia un po’ suonato, me ne rendo conto)

Cosa potrebbero avere in comune con noi degli “animali” provenienti da altri pianeti, di altri sistemi stellari, di altre galassie? Cosa DEVE esserci per forza?

L’unica risposta che riesco a darmi è questa: devono essere sottoposti a selezione naturale, dunque a un processo evolutivo. Non riesco a immaginare nessuna altra dinamica che possa portare a una varietà di forme, adattamenti, intelligenze che non passi attraverso una selezione sui caratteri più “idonei”.

Questo ovviamente richiede che tali caratteri abbiano una loro varietà e siano – in qualche misura – ereditabili.

Nel nostro pianeta esiste un solo “linguaggio” che consente la trasmissione ereditaria dei caratteri, ed è quello del DNA, in particolare della sua sequenza di basi azotate che determina l’ordine degli aminoacidi che vanno a costituire le proteine che, in ultima analisi, costruiscono e fanno funzionare le cellule e tutto l’organismo (chiedo perdono in ginocchio sui ceci ai genetisti per questa imbarazzante semplificazione).

La domanda ora diventa: esistono alternative al DNA come molecola ereditabile che sia anche “ricetta” per comporre e far funzionare un organismo?

Non lo sappiamo, sulla terra tutti i viventi usano questa molecola, questo linguaggio. Non conosciamo alternative.

Ma lì fuori?

Di più, considerando che con il DNA, alla fin fine, ci costruiamo le proteine (sempre in ginocchio suo ceci per i discepoli di Watson e Crick), esiste un’alternativa agli aminoacidi e alle proteine, esiste cioè la possibilità che ci siano molecole complesse e diversificate in grado di svolgere innumerevoli funzioni diverse da quelle che conosciamo?

Esiste quindi una chimica organica alternativa? Magari non basata sul carbonio?

E se la incontrassimo, saremmo in grado di riconoscerla?

Credo sia ora di uno spuntino.

P. S. Se qualcuno fosse interessato all’argomento e avesse voglia di leggere qualcosa di uno zoologo un po’ più bravo, non posso che consigliare la lettura del saggio “Guida Galattica per Naturalisti” di Arik Kershenbaum.

Merita.

Ipse Dixit, contro il principio di autorità

Aristotele

Ipse dixit.

Il principio di autorità secondo il quale un’affermazione è vera per il semplice fatto di essere stata pronunciata da una determinata persona (prima Pitagora, poi Aristotele fino all’arrivo di quel rompiballe di Galileo) è una trappola pericolosa anche oggi.

Sì tratta della classica argomentazione di talk show: “chiediamo un parere a tizio”, che in un botta e risposta può dire sostanzialmente ciò che gli pare condito da “mi faccia parlare, non mi interrompa”. Se la persona in questione ha una posizione o un curriculum importante Perché è medico/biologo/geologo/meteorologo, allora si dà per scontato che quello che dice è vero.

Ovviamente se un’altra figura con curriculum altrettanto prestigioso dice il contrario, ecco che si parla di “discordia nella comunità scientifica”.
Allora ciascuno si affeziona all’esperto che preferisce, di solito quello che conferma la propria posizione ideologica (confirmation bias) e comincia a citarlo per sostenere che la propria tesi è giusta, corretta, sacrosanta.

Ipse dixit.

Nella scienza non funziona così. Mai.
Il metodo scientifico prevede raccolta e analisi di dati, interpretazione e conclusioni coerenti con i dati raccolti.
Sì formula un’ipotesi, la si mette alla prova della realtà (esperimento) e se ne verifica la validità.

Nessuno può dire “gli elefanti volano se indossano berretti di lana con il pon-pon” senza dimostrarlo con un esperimento. No, nemmeno se chi lo afferma ha vinto un premio Nobel per la fisica con degli studi sull’aerodinamica dei pachidermi. Il volo degli elefanti con berretto deve essere dimostrato.

Quindi questo premio Nobel dovrà prendere dei gruppi di elefanti, possibilmente di diverse popolazioni, infilare ad alcuni un berretto di lana con pon-pon, ad altri uno senza pon-pon e avere un ulteriore gruppo senza berretto come controllo (sempre meglio averlo, un controllo).

A questo punto dovrà osservare il comportamento dei vari gruppi, raccogliere i dati, analizzarli e dimostrare che – con una certa significatività statistica – quelli dotati di berretto con pon-pon volano più degli altri.

Fino a che non si arriverà a questo gli elefanti volanti saranno solo chiacchiere.

Perché questo delirio di elefanti, berretti e ricerche improbabili?

Perché vedo già varie posizioni riguardanti i temi più o meno di attualità (dal Climate Change passando per i vaccini e la gestione dei grandi carnivori) sostenute da “autorità” che però non portano dati.

E ci tengo a ribadire che in scienza comandano i dati.

Non il curriculum, non l’anzianità di servizio, non gli amici in politica.

Nella scienza i dati vincono su tutto.

Il resto sono chiacchiere da talk, anche se a farle sono dei premi Nobel.

Zoologia e rappresentanza: quando gli animali diventano simboli

(post poco serio, ndr)

Molto spesso gli animali vengono utilizzati come simbolo per rappresentare un gruppo di persone, una organizzazione, una squadra sportiva. L’animale scelto come “ambasciatore” è dotato di caratteristiche in grado di incarnare lo “spirito” delle persone o del luogo a cui si riferiscono.

Di seguito elenco la classifica di quelli che ritengo essere i migliori stemmi nazionali (anche di nazioni non riconosciute) in base al mio personalissimo gusto sugli animali rappresentati.

Zoologia diplomatica, insomma…

Ci tengo a precisare che gli stemmi sono ufficiali e che la classifica si basa esclusivamente sul mio gusto personale in materia di bestie. Non c’è alcun tipo di valutazione sui sistemi di governo o sulle politiche dei paesi coinvolti (meglio specificare, non si sa mai).

Posizione numero 10:

Stati Uniti d’America. Ormai arcinota, la bald eagle (o aquila di mare testa bianca, Haliaeetus leucocephalus) è uno degli animali più belli del mondo. Bravi Yankees.

Posizione numero 9:

La Papua Nuova Guinea ci propone l’emblema della selezione sessuale, un meraviglioso l’uccello del paradiso, una Paradisea apoda

Posizione numero 8:

Il Sudan che sceglie – come i precedenti – un uccello come rappresentante: un serpentario (Sagittarius serpentarius), spettacolare!

Posizione numero 7:

La Namibia con tre animali: un’aquila pescatrice (Haliaeetus vocifer) e due orici (Oryx gazella).

Posizione numero 6:

L’Ossezia del Sud e uno degli animali più elusivi e maestosi di tutti i tempi: il leopardo persiano (Panthera pardus saxicolor)

Posizione numero 5:

L’Australia ha gioco facile con gli endemismi che si ritrova. Ha scelto i due più “facili”: canguro rosso (Macropus giganteus) e emu (Dromaius novaehollandiae)

Posizione numero 4:

Uganda, con un meraviglioso cob ugandese (Kobus kob thomasi) e una gru crestata (Balearia regulorum). Ottima scelta, Uganda!

Posizione numero 3:

Bronzo per Trinidad e Tobago, con due uccelli strepitosi: ibis scarlatto (Eudocimus ruber) e cachalacha (Ortalis poliocephala). Ma quanto è bello il cachalacha?

Posizione numero 2:

Cile! Beh, con l’huemul (Hippocamelus bisulcus), uno dei cervidi più rari al mondo, e il condor delle Ande (Vultur gryphus) hai davvero pochi avversari…

Posizione numero 1:

Mauritius. Cioè, non solo hanno un sambar (Rusa unicolor) che è già tanta roba, hanno anche un dodo (Raphus cucullatus). Un cavolo di DODO sullo stemma nazionale

Vincitori assoluti. Senza discussioni.

L’ordine delle cose (da Linneo alla genetica)

Correva la prima metà del XVIII secolo, l’Europa era attraversata da un’onda culturale che in seguito sarebbe stata chiamata illuminismo, l’idea che la ragione potesse svelare tutti i più reconditi segreti del mondo (storici, perdonatemi la sintesi).

In quegli anni si è cercato di mettere razionalità in tutto, utilizzando la ragione, la scienza e l’osservazione. Pochi anni in fondo erano trascorsi dalla rivoluzione galileiana e dall’idea che la conoscenza si potesse ottenere con l’osservazione, il ragionamento, l’esperimento.

D’altra parte uno dei più grandi scienziati di tutti i tempi, Sir Isaac Newton, è vissuto proprio in questo periodo (1642-1726), e a lui si devono scoperte e intuizioni scientifiche che ancora oggi utilizziamo per comprendere il mondo che ci sta attorno: dalla meccanica classica alla legge di gravitazione universale, passando per il calcolo infinitesimale.

Lo so, chi ha studiato fisica alle scuole superiori potrebbe avere sentimenti contrastanti circa la grandezza di quest’uomo.

Anche la biologia, intesa proprio come “studio della vita”, ha avuto i suoi giganti in quel periodo, primo fra tutti uno Svedese nato a Rashult il 23 maggio 1707, all’anagrafe Carl Nilsson Linnaeus, divenuto Carl Von Linné a seguito dell’acquisizione dello status nobiliare, noto a noi come Carlo Linneo dalla latinizzazione del suo nome.

Linneo è passato alla storia della scienza per essere il padre della classificazione sistematica dei viventi, classificazione che viene utilizzata ancora oggi e che vede ogni specie vivente indicata da due parole in lingua latina, indicanti rispettivamente il genere e la specie a cui si fa riferimento.

Per fare un esempio: noi apparteniamo alla specie Homo sapiens, dunque facciamo parte del genere Homo che oggi conta una sola specie (la nostra) ma che in passato ha avuto altre specie, oggi estinte, come il famoso Uomo di Neanderthal (Homo neanderthalensis).

Come funziona la classificazione sistematica dei viventi? Più o meno come un sistema di matrioske, cioè di scatole che contengono scatole che a loro volta contengono altre scatole.

Prendiamo sempre il nostro esempio. L’uomo fa parte di un dominio, quello degli eucarioti, dentro al quale sono contenuti diversi regni; noi apparteniamo al regno degli animali. All’interno del regno esistono altre “scatole”, quelle del phylum (noi apparteniamo al phylum dei Cordati), che a sua volta contiene varie classi (e noi facciamo parte della classe dei Mammiferi), che a loro volta contengono vari ordini (noi: Primati), che a loro volta contengono diverse famiglie (noi: Ominidi), che a loro volta contengono i generi (Homo), che infine contengono le specie (Homo sapiens).

Complesso? Forse. Ma elegantemente organizzato. Tutto a misura di ragione umana, tutto finalizzato a comprendere il “disegno” che sta all’origine della vita. Perfettamente illuministico.

Come ha fatto Linneo ad arrivare a questa classificazione? Principalmente osservando i tratti comuni dei viventi e cercando di capire chi si assomigliasse di più (aveva evidentemente molto tempo libero). L’ultimo livello, la Specie, era definito da individui in grado di riprodursi e generare progenie fertile (in sostanza: due individui della stessa specie possono riprodursi tra loro e i loro figli potranno avere figli).

Ovviamente la biologia è progredita dai tempi di Linneo a oggi. Abbiamo capito – tanto per fare un esempio – che le specie non sono fisse, ma evolvono nel tempo, cambiano, dunque non è detto che le “scatole” vadano sempre bene.

Abbiamo poi imparato che tutti i viventi sono accomunati da un’unica molecola in grado di portare l’informazione genetica (il DNA), quindi abbiamo iniziato a osservare le “somiglianze” e le “differenze” non solo da un punto di vista morfologico (chi si assomiglia di più come “forma”), ma anche da un punto di vista genetico.

Per fare questo abbiamo dovuto aggiungere “scatole” intermedie, perché la classificazione di Linneo era un po’ troppo grossolana. Abbiamo aggiunto sottofamiglie, superordini, cladi, tribù…

Questo ha reso più facile la divisione in categorie sistematiche? Tutt’altro! La classificazione su basi morfologiche diventa sempre meno importante.

Facciamo l’esempio di due uccelli molto simili (a prima vista): la rondine (Hirundo rustica) e il balestruccio (Delichon urbicum). Per quanto simili, non solo sono due specie diverse, ma appartengono anche a generi diversi.

Rondine (Hirundo rustica) a sinistra e Balestruccio (Delichon urbicum) a destra

Contrariamente due animali fisicamente molto diversi come l’alano e il bulldog inglese, non solo appartengono allo stesso genere, ma sono membri della stessa specie e sottospecie (Canis lupus familiaris).

Perché tutta questa confusione? Perché le categorie di Linneo – di fatto – non esistono.

La classificazione dei viventi è una classificazione pratica, con confini (le “scatole”) che determiniamo noi, per fare ordine nei nostri studi, ma che in natura non esistono.

La suddivisione più o meno grossolana è una visione dovuta a una “sfocatura” del nostro punto di vista, ma la natura non ci pensa minimamente ad essere etichettata per i nostri comodi. Noi possiamo prendere uno schema di base (quello di Linneo, utilissimo) e cercare di migliorarlo, adattarlo, affinarlo per provare a spiegare al meglio (a noi stessi) come si può rappresentare il mondo dei viventi.

Per il resto, al mondo dei viventi, importa poco delle nostre scatole.

Il valore di un orso (e di un ombrello)

Recentemente ho avuto la fortuna e il piacere di rispondere ad alcune domande in merito alla “questione orso” alla trasmissione radiofonica Zapping di Rai Radio 1 (per chi volesse riascoltare il mio intervento lo trova a questo link, a partire dal minuto 59 circa). In quella occasione ho risposto ad alcune domande che potete trovare anche in questo articolo.

Tra le domande che mi sono state poste dal conduttore della trasmissione, il giornalista Giancarlo Loquenzi, una in particolare è stata interessante e per niente facile: “Perché dovremmo volere l’orso nelle Alpi? Qual è il suo valore?”

Ho risposto che – a parere mio – i motivi sono fondamentalmente due:

Il primo è un motivo “culturale”: l’orso sulle Alpi orientali non è una novità, c’è sempre stato ed è sparito nel secolo scorso a causa della pressione dell’uomo che ne ha diminuito gli habitat idonei (oltre a cacciarlo direttamente), dunque per noi la reintroduzione dell’orso è una sfida: siamo veramente in grado di convivere con questa specie? Siamo davvero progrediti rispetto ai nostri bisnonni dal punto di vista della sensibilità ambientale? A queste domande stiamo provando a rispondere “Sì”.

Il secondo motivo, forse più difficile da spiegare in poche parole, è un motivo ecologico, indiretto.

Provo a rimediare qui.

Il valore “ecologico” della specie (orso) è un valore che possiamo definire “indiretto”: l’orso è una specie che ha molte necessità ecologiche per sopravvivere, per riprodursi e per stabilirsi a lungo termine in una determinata area.

Queste necessità sono moltissime, ad esempio la presenza di habitat idonei al riposo invernale, habitat idonei agli spostamenti su grandi distanze (corridoi ecologici), fonti alimentari diversificate, perché l’orso è onnivoro e ha bisogno piante da frutto, bacche, germogli, ma anche proteine di origine animale, in particolare di artropodi (larve di insetti), o carcasse di animali più grandi (ungulati o altri mammiferi) che trova prevalentemente al disgelo. Le prede “vive” sono una frazione minima, ma ci possono essere anche quelle, dunque anche qui ungulati, piccoli mammiferi, magari individui deboli o feriti.

Dunque l’ecosistema che permette la vita dell’orso sarà un ecosistema che consente lo sviluppo di diverse specie vegetali (arboree, arbustive, erbacee), sarà un ecosistema diversificato e connesso a diversi altri ecosistemi, riuscirà ad ospitare artropodi e altri invertebrati (che possono essere fonte alimentare per animali anche diversi dall’orso), ci saranno popolazioni di ungulati. Insomma, sarà un ecosistema complesso e ricco di biodiversità.

Per avere l’orso serve quindi un ecosistema complesso e interconnesso, in grado di fornire risposte soddisfacenti a tutte le necessità della specie (di cui ho fatto un elenco solo parziale). Un ecosistema in grado di accogliere e mantenere vitale una popolazione di orso è un ecosistema complesso e stabile e che – al suo interno, tra le molte necessità dell’orso – riesce a rispondere anche alle più limitate necessità di moltissime altre specie, che dunque vivono e prosperano grazie al complesso ecosistema che accoglie una specie “difficile” come l’orso.

In termini ecologici l’orso si definisce “specie ombrello” perché con le sue necessità “protegge” (come fosse un ombrello) le minori necessità di molte altre specie. Si tratta di un importante concetto ecologico, che crea benefici non sempre visibili.

Questo concetto si adatta a molte specie, in molte parti del mondo, dalle tigri dell’Amur, passando per il giaguaro fino ad arrivare al panda gigante (ma ci sono anche insetti e pesci). Il valore ecologico di queste specie è enorme non perché siano in grado di agire direttamente sull’ecosistema (non in maniera particolarmente pesante per lo meno), ma perché hanno bisogno di ecosistemi complessi.

Mantenere un ecosistema capace di sostenere una specie ombrello significa mettere “al riparo” moltissime altre specie, molte delle quali probabilmente sconosciute ai più.

Trovate altri esempi e spiegazioni più approfondite qui (solo per fare un esempio)

A proposito di comportamento animale (e di elefanti)

Photo by luxstorm via Pixabay

Mi ha incuriosito questo articolo uscito su Science in cui si ipotizza che anche gli elefanti (come l’uomo e i bonobo) potrebbero essere sottoposti a un processo di autodomesticazione. Di cosa si tratta?

La domesticazione (senza “auto”) è il processo con cui l’uomo ha selezionato gli animali domestici: i bovini e gli ovini che fornivano più latte, i cani più utili a svolgere certe mansioni ecc. Vale anche per le piante (i cereali ne sono un esempio)

L’autodomesticazione è il processo per cui una specie – in qualche modo – seleziona sé stessa, cioè i propri membri. Per fare ciò è necessario che la specie sia sociale, cioè che i suoi membri cooperino per un “bene comune”, magari dividendosi i compiti e organizzandosi.

In un simile contesto vengono accettati maggiormente quegli individui che manifestano tratti più cooperativi, meno “prepotenti”, in sostanza più adatti alla vita in gruppo. Tra questi possono rientrare anche dei tratti estetici (pensate alle espressioni “quasi umane” che ci fanno sorridere nei cani oppure – nell’uomo – i tratti somatici che riteniamo rassicuranti).

Questa caratteristica viene “scritta” nel DNA del gruppo, nel senso che se i caratteri “utili” alla società sono ereditari allora diverranno sempre più comuni. Si tratta di una vera e propria pressione evolutiva (molto complessa nei suoi fattori) che si manifesta su una specie a “causa” di sé stessa in qualche modo.

Nell’uomo questo processo – a quanto pare – ha avuto un’accelerazione da circa 10mila anni fa, cioè quando abbiamo avuto lo sviluppo dell’agricoltura e dunque la forte crescita di gruppi sociali complessi in cui ogni individuo ha iniziato a ricoprire un ruolo specifico da cui dipendeva il benessere di molti (e che a sua volta dipendeva dal ruolo degli altri individui).

Un processo simile è stato evidenziato nei bonobo, la specie animale più “vicina” a noi, oggi si aggiungono candidati, cioè tutte e tre le specie di elefanti, cioè l’elefante africano (Loxodonta africana), l’elefante nano di foresta (Loxodonta cyclotis) e l’elefante indiano (Elephas maximus).

La materia è complessa anche solo da definire (mi scuso per le semplificazioni e per le non volute imprecisioni), non ci sono ancora elementi definitivi (per lo meno per gli elefanti), ma possiamo senz’altro concludere due cose:

1. Il comportamento animale, in particolare nelle specie con un grande sviluppo cerebrale come i mammiferi (ma non solo), è molto complesso: esistono individualità e dinamiche difficili da comprendere ed è sempre più illogico pensare al comportamento di un “animale medio”.

2. La nostra specie è meno “unica” di quel che possiamo pensare, gli sudi sull’intelligenza animale demoliscono giorno dopo giorno tutta una serie di “abilità” che pensavamo fossero solo nostre (sotto: consiglio di lettura, su altri animali).

Orsi. Tante domande, alcune risposte

È triste notizia di questi giorni la morte di un uomo, Andrea Papi, per un attacco di un orso. Si tratta del primo caso in Italia di persona deceduta a seguito dell’attacco di orso, nonostante altre aggressioni fossero già avvenute, con esiti più lievi.

Questo ha portato a reazioni politiche e gestionali e, come logico, a contro-reazioni. Spesso il tutto si è basato sull’emotività, ci si è divisi tra “colpevolisti” e “innocentisti”, quasi sempre semplificando una situazione che facile non è.

Sul mio profilo Twitter ho raccolto alcune domande, qui è dove cerco di dare risposte. Saranno risposte forse insoddisfacenti, magari parziali. Ciò che posso garantire è che il mio punto di vista è libero, da zoologo, quindi da tecnico. Non supporto alcuna posizione politica. Non sono un cacciatore, non sono iscritto ad associazioni ambientaliste. Sono un tecnico, provo a fare del mio meglio.

Iniziamo:

Esiste una valutazione quantitativa dei danni provocati dall’orso? Esistono sistemi di compensazione efficaci?

Per rispondere a questa domanda (e a diverse altre) mi affido al rapporto grandi carnivori che la Provincia Autonoma di Trento pubblica con cadenza biennale (quindi mi riferisco ai dati 2021). Il rapporto indica che dal 1976 i danni da orso vengono indennizzati al 100% del valore dei beni materiali. Esistono poi aiuti economici (fino al 90%) per l’acquisto e la gestione di sistemi di prevenzione (recinzioni elettrificate e cani da guardiania). Nel 2021 i danni danni da orso sono stati 301 (non pochi, quasi uno al giorno) indennizzati con un totale di poco superiore ai 172.000 euro. Ovviamente stiamo parlando di danni ad animali da allevamento, apiari e strutture, non di danni diretti alle persone (danni da attacco).

L’orso può attaccare l’uomo senza motivo?

No, l’orso attacca l’uomo sempre per un motivo. Il problema è che talvolta il motivo non è razionalmente o immediatamente comprensibile per noi. Nella grande maggioranza dei casi l’orso attacca l’uomo perché si sente minacciato, oppure perché sente minacciata la prole. L’orso non preda l’uomo, cioè non lo attacca per cibarsi. Resta importante sottolineare che eventuali decisioni gestionali (cattura, allontanamento, abbattimento) non sono “punizioni”, l’orso non viene giudicato “cattivo” o “colpevole”, né ha “attenuanti”. Il motivo di scelte gestionali estreme è finalizzato alla sicurezza delle persone che frequentano le aree in cui c’è l’orso e – per quanto possa sembrare controintuitivo – per tutelare la specie.

Un orso può insegnare ad altri orsi un comportamento aggressivo?

Certamente può succedere, in particolare se l’orso aggressivo è una femmina con dei piccoli. Le femmine investono due anni o più per crescere i propri cuccioli e per insegnare loro a sopravvivere. Un’orsa che manifesti scarso timore per l’uomo o comportamenti aggressivi probabilmente trasmetterà questo modo di comportarsi ai propri piccoli. C’è poi un insegnamento “indiretto”, genetico: la neofilia, ossia l’attrazione (o il non timore) per le situazioni nuove, la curiosità che può spingere un animale ad avventurarsi in centri abitati attratto – ad esempio – dall’odore del cibo. Molti tratti legati alla neofilia, a quanto pare, sono ereditari.

Perché gli orsi devono essere abbattuti e non possono essere spostati in altro luogo?

Non c’è alcun obbligo di abbattimento, anzi. L’abbattimento è l’extrema ratio della gestione. Qualora sia necessario allontanare un animale pericoloso si può optare – se fattibile – per la captivazione permanente, ossia per chiudere l’animale in un’area recintata (è già capitato con l’orso M49). Spostare un animale pericoloso in un’altra area libera, invece, solleva parecchi problemi: primo fra tutti si sposta semplicemente il problema a carico di altre comunità, e per spostare un animale è necessario che qualche amministrazione lo accolga. Gli spostamenti, infine, sono complessi: richiedono la cattura e la manipolazione dell’animale da parte di personale specializzato, gli animali sono sottoposti a stress notevoli e il tasso di mortalità non è trascurabile. In sostanza non è così semplice.

Perché non si può impedire o limitare l’accesso alle persone nelle aree in cui è presente l’orso?

L’area di frequentazione dell’orso, in territorio alpino, non può non sovrapporsi ad aree di presenza dell’uomo. Le Alpi sono una catena montuosa fortemente frequentata dall’uomo, non solo per il turismo: le attività forestali, l’allevamento, l’alpicoltura sono solo alcune delle attività che richiedono la presenza quotidiana di persone in aree boscate, senza considerare il fatto che per muoversi da un comune all’altro si percorrono strade fiancheggiate da boschi. Quello che si può fare, in effetti, è informare gli abitanti (e i turisti, che troppo spesso prendo un po’ sotto gamba la montagna) sulle migliori pratiche per ridurre i rischi al minimo.

C’è un rischio stagionale negli attacchi?

Considerando che, come detto sopra, gli attacchi dell’orso all’uomo sono legati a meccanismi di difesa, la probabilità di attacchi non è legata a una stagionalità (non che io sappia per lo meno). Ovviamente maggiore è il numero di persone che frequenta i boschi, maggiore sarà la probabilità di un incontro ravvicinato. Per quanto riguarda gli attacchi agli animali posso ipotizzare una maggiore propensione di qualche individuo prima del letargo (fine estate-autunno), ma ritengo che gli attacchi al bestiame seguano più una logica di opportunità: c’è una preda facile? L’orso ne approfitta, senza guardare il calendario.

Come ci si comporta in caso di incontro con un orso?

Incontrare un orso non è facile, questa specie ha una pessima vista (si alza sulle zampe posteriori per questo motivo molte volte) ma ha un olfatto e un udito eccezionali. L’orso, mi ripeto, non preda l’uomo, quindi un attacco è probabile solo se l’orso percepisce l’uomo come una minaccia. La prima cosa da fare è mantenere la calma (come se fosse facile), evitare di urlare, muoversi a scatti o mettersi a correre. La cosa migliore da fare è indietreggiare lentamente, senza dare la schiena all’animale, magari lanciando (di lato, non addosso all’animale) qualcosa (uno zainetto, un panino) in modo che l’orso incuriosito vada a indagare. Appena lontani è opportuno segnalare l’accaduto alle autorità (Corpo Forestale provinciale o Carabinieri). Tutto questo per letto e sentito dire, non mi è mai capitato un incontro ravvicinato.

Ci sono studi sulla capacità portante dell’ecosistema?

Difficile dirlo, non so se esistano studi in questo senso. Tuttavia il progetto di reintroduzione Life Ursus si poneva come obiettivo una popolazione vitale di orsi quantificata in 40-50 esemplari, il rapporto grandi carnivori 2021 parla di “numero minimo certo” di orsi di 68, senza contare i piccoli nati nell’anno (sono curioso di leggere i dati 2023). Il numero è già piuttosto superiore al valore “di progetto”. La capacità portante di un ecosistema, inoltre, è definita dal limite che tutti gli elementi di un ecosistema oppongono alla crescita numerica di una specie, e l’uomo è parte dell’ecosistema. Se la popolazione umana decide che l’orso non ci deve essere, l’orso avrà poco futuro. Questo è il motivo per cui le autorità politiche che scelgono gli indirizzi gestionali hanno la responsabilità di fare in modo che le persone siano e si sentano al sicuro, agendo sui pochi individui problematici per evitare soluzioni “fai da te” anche a danno di individui tranquilli.

Sarebbe stato possibile ripopolare le Alpi introducendo orsi Marsicani, meno aggressivi?

No, per due motivi: il primo è che l’orso marsicano è una sottospecie (Ursus arctos ssp. marsicanus) considerata a rischio critico per la conservazione, con una popolazione di qualche decina di esemplari e considerata in declino (almeno stando ai dati ufficiali pubblicata da IUCN), non sarebbe dunque indicato rimuovere esemplari dall’areale di origine, con tutti i rischi che questo comporta, per ripopolare un’area in cui non sono mai stati. Il secondo motivo è che la reintroduzione dell’orso bruno sulle alpi orientali ha un “respiro” più ampio rispetto al solo Trentino: l’idea a lungo termine sarebbe quella di avere una popolazione non isolata di orsi, dunque collegata (fisicamente e geneticamente) alle popolazioni dinariche (Slovenia e Croazia) a loro volta collegate alle popolazioni dell’Europa centro-orientale. Questo significa rimescolamento genetico di sottospecie affini.

Le aggressioni sembrano aumentate molto negli ultimi anni. A cosa è dovuto?

Senza dubbio l’aumento numerico della popolazione (10 esemplari complessivi introdotti dal 1999 al 2002 fino ai 68 come numero minimo certo senza contare i nati dell’anno del 2021) ha aumentato la probabilità di incontro nonché il numero di individui naturalmente portati ad avvicinarsi alle infrastrutture umane o a predare animali domestici. Una maggiore densità della popolazione di orsi, inoltre, potrebbe obbligare i maschi giovani a spostarsi dagli areali più “protetti” in cui le femmine con i piccoli, particolarmente aggressive, non gradiscono la presenza di altri individui (né i maschi adulti sono così felici di avere maschi giovani tra i piedi).

Perché la popolazione trentina si è espansa bene come numero di esemplari ma non ha ampliato notevolmente il proprio territorio?

In questo caso il problema è legato alla diversa etologia dei due sessi. I maschi vanno in dispersione e si allontanano anche parecchio (sotto vedi l’immagine degli animali dispersi/emigrati/deceduti tratta dal rapporto grandi carnivori 2021 della Provincia Autonoma di Trento), le femmine, diversamente, tendono a stare in un’areale più limitato, specialmente se l’areale in questione è fornito di habitat idonei ed è ben protetto, come nel caso delle Parco Adamello Brenta (cfr. immagine sotto). Ovviamente un maschio che va in dispersione ma non trova altre popolazioni, dunque altre femmine, non può dare origine a nuovi nuclei che si stabiliscano in un territorio diverso. In molti casi gli animali “rientrano” nell’areale da cui sono usciti.

Esito della dispersione come riportato dal rapporto orso e grandi carnivori della Provincia Autonoma di Trento

Quali sono i protocolli operativi nel caso in cui un orso attacchi un uomo?

L’attacco a un uomo è il comportamento più grave che un orso possa manifestare, prima di questo ci sono molti altri comportamenti rischiosi che devono essere tenuti in considerazione e che vengono affrontati con misure che possono essere leggere o pesanti. Il Piano d’Azione Interregionale per la Conservazione dell’Orso Bruno nella Alpi Centro Orientali (denominato PACOBACE) prevede una lista di atteggiamenti che può avere un orso in relazione all’uomo, da quelli meno preoccupanti (“orso scappa immediatamente dopo un incontro ravvicinato”, il meno preoccupante) a quelli più preoccupanti (“orso attacca l’uomo senza essere provocato”, il più grave), con tutte le varie sfumature intermedie. A questi comportamenti si associano delle azioni, che possono andare dall’intensificazione del monitoraggio (anche con radiocollare) passando per azioni ambientali (rimuove possibili elementi di attrazione per l’orso, come cassonetti delle immondizie) fino ad arrivare all’estremo della cattura per captivazione permanente o all’abbattimento, che è un’opzione prevista proprio dal piano di conservazione.

Il motivo razionale per cui un orso può venire abbattuto è proprio per la salvaguardia della popolazione orsina: gli orsi possono convivere con l’uomo solo se la popolazione umana ne accetta la presenza, dunque le persone devono sentirsi al sicuro, è compito della politica decidere per scelte gestionali anche forti. L’alternativa è che la popolazione umana decida di gestire i problemi in modo “non ufficiale”, dunque tecnicamente non corretto, mettendo a repentaglio l’esistenza di tutti gli esemplari, inclusi quelli non problematici.

Esiste uno studio che indichi quali sono stati i benefici ecologici della presenza dell’orso bruno?

Non sono in grado di dire se esista nello specifico, quello che posso affermare è che l’orso è una tipica “specie ombrello”, ossia un specie con esigenze ecologiche complesse e diversificate nel tempo e nello spazio: ha bisogno di aree di riposo invernale, di aree di alimentazione diverse nelle diverse stagioni, luoghi di riposo sicuro, fonti alimentari diverse. Un ecosistema in grado di supportare la presenza di una specie di questo tipo è una specie che certamente è in grado di sostenere molte altre specie dalle esigenze più limitate, come se fossero protette da un “ombrello” costituito dall’ecologia dell’orso.

Un orso che attacca l’uomo può sentirsi più “a suo agio” e dunque ripetere l’attacco?

Gli orsi sono animali molto intelligenti che imparano per imitazione (specialmente da piccoli) e per esperienza. Un orso che ha avuto uno scontro con un uomo e ne è uscito “vincitore” sicuramente apprende che l’uomo non è un pericolo così grave e può essere portato ad essere meno prudente, rinunciando ad evitare situazioni di contatto, causando di conseguenza nuove situazioni di rischio.

Come viene gestito l’orso in altri paesi come Stati Uniti e Slovenia?

Partiamo dagli USA: gli orsi nordamericani appartengono a specie (orso nero) o sottospecie (grizzly) diverse dall’orso bruno presente sulle Alpi, dunque con comportamenti diversi. Negli USA i parchi naturali sono caratterizzati da una presenza umana molto inferiore a quella dei parchi Italiani, i turisti frequentatori vengono istruiti e frequentano le aree di presenza dell’orso (di solito) per periodi di tempo limitati. Faccio fatica a paragonare le due situazioni. In Slovenia la convivenza con l’orso è vecchia di molti decenni (o secoli), è normale per quasi tutti sapere quali sono i rischi che si concretizzano incontrando un orso e come comportarsi in linea di massima. A questo aggiungiamo che la Slovenia “monetizza” la presenza dell’orso, ogni anno turisti vengono accompagnati a vedere gli animali, a fotografarli, gli orsi vengono cacciati e gli abbattimenti sono tutt’altro che esigui (a dimostrazione che la gestione faunistica con abbattimenti non impedisce la presenza di una popolazione stabile di animali).

Il progetto Life Ursus fu una scelta avventata? Si può definire fallito?

Personalmente ritengo il progetto di reintroduzione dell’orso bruno sulle Alpi orientali un successo difficilmente replicabile: ricordo che l’obiettivo, non certo scontato, era quello di ottenere in un periodo di 20-40 anni una popolazione stabile di 40-50 esemplari. A nemmeno 25 anni dal primo rilascio i numeri sono nettamente più alti e la popolazione ha “preso possesso” dell’abitato in modo stabile. Credo sia stato un esempio di come un progetto importante con una specie complessa possa essere portato avanti seriamente e con successo. Penso sia un punto d’orgoglio per il nostro Paese e per tutti quelli che ci hanno lavorato, direttamente o indirettamente.

Quello che probabilmente non sta andando come dovrebbe, forse proprio a causa del rapido aumento del numero di esemplari, è la “fase 2”, quella in cui si passa da una situazione di studio-tutela di pochi esemplari introdotti (e dei loro discendenti) a una di gestione seria di una popolazione stabile nel territorio, gestione che deve portare alla valutazione di un numero di individui che possa permanere in un territorio e di decisione sul cosa fare quando – come in questo caso – gli individui superano quel determinato numero.

Non è facile, gli esempi di successo (Slovenia) convivono con questa specie e con la relativa gestione da svariati decenni, noi siamo abbiamo reintrodotto il primo orso nel Parco Adamello Brenta nel 1999, 24 anni fa. Serve ragionare con serietà, competenza e lasciando perdere le tifoserie.

Vita da Capibara (Hydrochoeris hydrochaeris)

Un caracara testagialla (Milvago chimachima) appollaiato su un capibara (Hydrochoerus hydrochaeris) nel Pantanal in Brasile, da wikipedia.it

Sorge l’alba di una mattina di gennaio. Non è freddo, sarà per il sole che scalda l’aria del mattino, sarà per le temperature particolarmente miti dell’ultimo periodo, sarà perché sei in sud America ed è piena estate.

Il tuo habitat la riva di un fiume. Rive basse, paludi che si riempiono con le piene, fango, zanzare, ma a te importa poco. Tu ti muovi veloce tra la vegetazione, a dispetto del tuo aspetto fisico, e ancora più veloce in acqua, sei un ottimo nuotatore.

Il cibo non manca: erba, fusti giovani di piante spontanee, germogli, radici. I tuoi incisivi superiori sono grandi e robusti. Crescono in continuazione, dunque sei costretto a mangiare in continuazione, a consumarli, perché sei un roditore.

Ma che dico un roditore. Sei il più grande roditore vivente, un bel maschio di oltre 50 kg, lungo un metro e venti dalla punta del naso al tondo fondoschiena che termina con una coda impercettibile. Quasi 60 cm di altezza al garrese. Puoi guardare letteralmente dall’alto in basso i tuoi “colleghi” roditori, ma anche buona parte degli altri mammiferi, comprese svariate razze di cane.

Un comodino con le zampe. Un comodino bello grosso.

Potresti essere aggressivo, talvolta lo sei ma solo se si tratta di riproduzione. In generale sei un animale pacifico, vivi in gruppi di 15-20 individui, ma anche di più se serve.

Tutti insieme vivete in quella zona di confine dove l’acqua dolce tocca la terra, tra rive, sponde, aree alluvionali. I bipedi invasori usano spesso quelle terre per coltivare le loro piante, come il mais.

Buonissimo il mais, ti mangi anche quello.

In fondo la convivenza con i bipedi non è così disastrosa: spesso sei stato nel loro mirino per la pelliccia e per la bontà della tua carne. Gli scimmioni nudi sono così, si approfittano di chi manifesta un carattere placido e ne fanno un po’ ciò che vogliono. Ora la situazione è di sostanziale equilibrio, la tua specie non corre rischi elevati, salvo in qualche zona dove continuano a darti la caccia e a occupare il tuo habitat.

Tra i tuoi nemici ci sono anche i tuoi simili. Gli altri maschi in particolare. Fin da quando sei piccolo i maschi sono un pericolo: alcuni arrivano addirittura ad attaccare e a uccidere i piccoli di un altro maschio. Ora che sei adulto i tuoi colleghi potrebbero rivolgere a te le loro fastidiose attenzioni per farti sloggiare e godersi le femmine che hai attorno.

Illusi.

Oltre 50 kg di stazza fanno sì che sia meglio pensarci due volte prima di romperti le scatole.

Altri nemici? Certo che ci sono.

C’è quella rottura di scatole dei gattoni, giaguari e puma, si avvicinano silenziosi e desiderosi di uno spuntino.

Chiamalo spuntino, 50 kg di ciccia.

Soluzione? Via in acqua. Ci si immerge, si nuota via veloci e se necessario si sta in apnea. Anche cinque minuti di orologio.

La cosa bella è che – per evitare sorprese nel sonno – puoi anche decidere di dormire in acqua, immerso, lasciando fuori solo le narici.

Scacco matto micioni predatori!

Sì, va bene, ci sono anche i caimani. Per quelli basta scappare fuori dall’acqua.

Insomma, che probabilità c’è che giaguari e caimani si mettano d’accordo per un attacco simultaneo? Basta stare un po’ attenti.

Per il resto acqua, sonnellini e grandi mangiate di piante.

Quanto è bello essere un capibara.

Gatti reali e struzzi figurati

Sempre Twitter mi consegna in poco tempo due storie collegate. La prima: una gatta di 31 anni (do per buono il dato per quanto improbabile, non è questo il punto) viene attaccata e uccisa da un cane senza guinzaglio.

La seconda, Nicola Bressi (@Nicola_Bressi per chi frequenta il social), naturalista del Museo di Storia Naturale di Trieste, porta l’attenzione su un concetto evidente alla comunità scientifica da molti anni ma molto poco noto al grande pubblico: i gatti domestici che vagano liberi uccidono altri animali.

Il minimo comune denominatore è che in molti casi in gatti domestici vengono lasciati liberi di girare dove vogliono, e che tale libertà è generalmente molto tollerata dai padroni e dall’opinione pubblica.

Prova ne sia il fatto che la sfortunata gatta della prima storia sia dipinta evidentemente come la vittima di un attacco da parte di un animale da affezione lasciato libero di girare non controllato. Poco importa che anche la gatta in questione fosse un animale da affezione lasciato libero di girare non controllato (come riporta l’articolo).

Spesso la risposta a queste osservazioni è che “è nella natura dei gatti girare liberi” e che “sarebbe una violenza tenerli in casa”. Due osservazionia che reggono poco.

Partiamo dalla seconda: tenere un gatto in casa non è più “violento” di tenere un cane  al guinzaglio (in termini di privazione della libertà di andare dove si vuole), semplicemente percepiamo come più pericolosi i cani (mordono, così di dice) rispetto ai gatti, quindi ci pare evidente che vadano tenuti sotto controllo fisico.

Per quanto riguarda la “natura” del comportamento vanno spiegate un paio di cose:

1. La natura di un gatto è quella di essere un felino, dunque un carnivoro dal punto di vista sistematico ma anche dal punto di vista ecologico (ed etologico). I gatti sono predatori. Vanno a caccia. Uccidono per mangiare ma anche solo per istinto. Piccoli mammiferi, uccelli, rettili, insetti. Tutto è preda per loro. Se osserviamo questa cosa dal punto di vista delle prede non è così simpatico.

2. I gatti domestici non esistono in natura.  Il gatto domestico è una sottospecie del gatto selvatico (Felis silvestris catus) selezionata e allevata dalla nostra specie (Homo sapiens) come “aiutante” prima (per tenere al sicuro i granai) e come compagno dopo. Se non fossero stati allevati e selezionati i gatti domestici, se dovessimo prendere in considerazione solo la popolazione naturale di gatto selvatico (Felis silvestris), certamente la popolazione di questi predatori non sarebbe così densa.

L’impatto dei gatti domestici sulla piccola fauna selvatica è studiato e documentato da anni (tanto per fare un esempio autorevole propongo questo link). Gran parte dei questo impatto è da imputare a gatti “randagi”, cioè non gestiti e non curati da nessuno.

Un estratto dall’articolo citato (Loss et al., 2013)

Cosa possiamo fare per mitigare i danni?

Per prima cosa possiamo riconoscere che i nostri animali da compagnia hanno un impatto sul mondo esterno e non fare come gli struzzi, nascondendo la testa sotto la sabbia. A questo punto possiamo cercare di tenerli sotto controllo (cosa buona e giusta indipendentemente dall’animale da compagnia che abbiamo, visto che ne siamo responsabili).

Una cosa che si può fare è sterilizzarli. Oltre a diminuire il rischio di fuga (e morte sotto le ruote di un’auto) la sterilizzazione contribuisce a non incrementare il numero di randagi, dunque a diminuire il numero di gatti che girano, diminuendo anche le occasioni di scontro con i nostri domestici e la diffusione di patologie.

Avere un animale da affezione è un impegno e una responsabilità, nei confronti in primis dell’animale che abbiamo adottato e fatto entrare nella nostra famiglia. Averne cura significa avere cura anche dell’ambiente che condividiamo.

Post scriptum grazie a Giulia (@TheSnoopyG su Twitter), Veterinaria, che ha contribuito con osservazioni pratche:

Altre cose che si possono fare: censimento delle colonie feline, con area/via, numero e descrizione degli esemplari ed elenco e recapiti dei “gattari”, che possono collaborare alla cattura dei gatti per sterilizzazione, microchip e successivo rilascio in colonia.

Adozione dei cuccioli. In questo modo le colonie di gatti randagi vengono tenute sotto controllo, si evitano la sovrappopolazione e molte malattie.